Si rivolgeva allo studio il legale rappresentante di un'impresa di trasporti che, in conseguenza di una crisi aziendale, non aveva onorato un modesto pagamento, inferiore ai mille euro, ad un fornitore esercente nel settore della pavimentazione, il quale presentava istanza di fallimento nell'anno 2021,
Costituitasi pertanto, la ditta assisitita da questi professionisti, innazi al tribunale milanese competente per il caso, si avversava la domanda di dichiarazione del fallimento per due motivazioni:
1) L'insussitenza del minimo indebitamento
2) L'inusisistenza dei requisiti dimensionali per essere sottoposti al fallimento
A seguito di debita produzione documentale, che comprovava l'esistenza di complessivi debiti inferiori alla soglia di 30 mila euro e di documentaizone che dimostrava una situazione patrimoniale infeirore ai requisiti dimensionali per essere sottoposti al fallimento, il Tribunale di Milano Sezione Fallimentare accoglieva le istanze difensive e rigettava la domanda di fallimento.
Si rivolgeva allo studio cittadina straniera, la quale rappresentava che il proprio compagno con lei convivente e genitore dei suoi tre figli era stato colpito da un provvedimento di esplusione emesso dalla Prefettura di Modena.
Analizata la stuazione e dopo una sessione in studio con l'espulso e la sua compagna, si decideva di intraprendere la difesa nel caso di specie.
Veniva pertanto preliminrmente richiesto al Tribunale dei Minori di Bologna autorizzazione alla permanenza in italia dell'espulso per motivazione di assitenza minori. i clineti avevano, infati, come detto, generato ben tre figli, nati in Italia dal 2007 al 2011.
Eseguita tale preliminare richiesta, si impugnava il provvedimento di esplusione innanzi alla Sezione Immigrazione del Tribunale di Bologna, competente per il caso, essendo lì pendente la richiesta sopra indicata.
I difensori rappresentando essenzialmente l'esistenza e l'effettività di legami familiari dell'interessato in Italia, sottolineando la durata del suo soggiorno in Italia, ormai più che decennale, insistevano per l'annullamento dell'atto espulsivo. Si evidenziava, infatti, che quest'ultimo difettava di adeguata motivazione per non essere stati adeguatamente valutati da parte dell'amministrazione i sudetti parametri di inserimento sociale e familiare.
Il Tribunale di Bologna Sezione Immigrazione, in adesione alla richiesta difensiva, riteneva prevalente il diritto dello straniero al rispetto della sua vita privata e familiare, in contrasto con l'interesse statale alla tutela dei confini, che diventava, infatti, interesse soccombente nei confronti di quelli sopra indicati, valutati dal giudice come prioritari.
Si rivolgeva allo studio legale la titolare di un'impresa individuale di intonaci, la quale era stata defferita all'autorità giudiziaria modenese per aver occupato alla proprie dipendenze un lavoratore straniero privo del permesso di soggiorno.
Dopo aver esaminato la vicenda con l'indagata e aver avuto conferme da parte della stessa di non aver mai eseguito l'assunzione predetta, essendo poi, tra l'altro, nel cantiere in cui era stato individuato il lavoratore irregolere, presenti ed operanti molteplici ditte ed imprese edili, si decideva di affrontare il giudizio dibattimentale al fine di dimostrare l'estraneità ai fatti dell'assistita.
In giudizio, dopo diverse produzioni documentali ed il controesame dei testi della pubblica accusa, i quali descrivevano un quadro incerto e con insufficienti ed inadeguate prove del fatto, si procedeva anche ad esaminare un dipendente dell'indagata, il quale confermava la versione fornita dall'assistita.
Il tribunale, però, in primo grado disattendeva la tesi difensiva ed anzi condannava l'imputata alla pena di mesi quattro di reclusione ed euro 3.334,00 di multa.
A questo punto la difesa presentava appello presso la competente corte bolognese ed assumendo con quattro motivi di gravame l'erroneità della decisione di primo grado, otteneva adesione della corte d'appello al secondo motivo, con cui la difesa si doleva dell'insussitenza di prova del fatto contestato al di là di ogni ragionevole dubbio.
Il giudice di appello assumeva, infatti, in riforma dell'impugnata sentenza che l'imputata andava mandata assolta non essendo stato provato oltre ogni ragionevole dubbio che la stessa avesse assunto in nero il lavoratore irregolare presente nel cantiere.
Si rivolgeva allo studio persona attinta da provvedimento ingiuntivo della competente Prefettura diretto a recuperare un importo rilevante, pari a circa 15.000,00 euro, quali spese di rimozione, custodia e mantenimento di un veicolo sequestrato ed in seguito confiscato.
Dall'esame degli atti e della documentazione ottenuta a seguito di un rituale accesso, si verificava che la prefettura avrebbe mantenuto e custodito il veicolo per diversi anni, nonostante l'assisitito avesse richiesto formalmente di essere nominato lui custode, disponendo di un'idonea area di ricovero, al fine proprio di evitare onerose e pluriennali spese rifeirte al veicolo sequestrato.
Ebbene dall'istruttoria documentale eseguita in giudizio emergeva effettivamente che la prefettura non aveva osservato la procedurta di cui all'art. 213 C.d.S. , privando il cliente dello studio della possibilità di farsi nominare custode, onerandolo così illegitiimamente di ingenti spese di custodia e di recupero.
Il ricorso, infatti, veniva accolto e l'ordinanza di pagamento delle predette spese era annullata.
L'assistito si rivolgeva allo studio perché, una notte, dopo aver consumato una serie di bevande alcooliche, nel tentativo di tornare a casa con la sua auto, veniva fermato da una pattuglia di agenti, intenti ad effettuare controlli di routine sulla strada.
Sottoposto ad etilometro dalle forze dell'ordine, queste registravano un tasso alcolico tra 0,87 e 0.82 g/L. Dopo ciò, essendo comunque tali risultati superiori alle soglie di rilevanza penale previste nel Codice della Strada (0.80 g/L), le autorità procedevano a comunicare alla Procura della Repubblica una notizia di reato a carico dell'assistito.
La difesa, però, vista l'entità del fatto lieve, decise di depositare una memoria al Pubblico Ministero, chiedendo, già in sede di indagini, l'archiviazione per estrema tenuità del fatto ex art. 131 bis cp. La norma di cui all'art. 131 bis c.p., prevede la non punibilità, per i fatti che, seppur idonei in astratto a configurare una fattispecie di reato, in realtà, appaiono di lieve entità, vista la non abitualità della condotta ed il danno arrecato od il pericolo tenue cagionato.
Nella memoria prodotta dalla difesa, infatti, si faceva forza proprio sul fatto che diversi giudici avevano riconosciuto il non doversi procedere ex art. 131 bis c.p. nei confronti di altri imputati in casi anche più gravi rispetto quello registrato.
In particolare adottando anche l'orientamento più restrittivo, in conformità, però, alle previsioni di legge, si evinceva che, nei casi di guida in stato di ebrezza per avere l'estrema tenuità erano tre gli elementi essenziali:
1) Un tasso alcolmico di poco supeirore alle soglie previste dalla legge.
2) Eseguità dei danni cagionati dalla guida alterata dall'alcool.
3) La non abitualità della condotta, cioè, di fatto, non avere altri precedenti episodi di guida in stato di ebrezza.
La difesa. infatti, in primis sottolineava come: il tasso alcoolico dell'assistito fosse solo di poco superiore rispetto ai limiti di legge, precisamente nel massimo di 0,07 g/L. In secondo luogo, poi, come: la guida dell'assistito, seppure con un tasso alcolico sopra le soglie, non aveva comportato alcun tipo di danno o pericolo per la circolazione stradale, non aveva cagionato danni, ad esempio incidenti o investimenti di pedoni ed anzi, lo stesso era stato fermato dagli agenti non per una guida insicura o pericolosa, ma in seguito ad mero controllo di routine.
Tutto ciò, unito alla mancanza di precedenti specifici, aveva portato anche lo stesso Pubblico Ministero a condividere le opinioni difensive, tant'è che in seguito alla memoria depositata dalla difesa, veniva presentata ed accolta la richiesta di archiviazione ed il procedimento nei confronti dell'assisto veniva chiuso, prima ancora che iniziasse un vero e proprio processo penale nei suoi confronti.
Si rivolgevano allo studio padre e figlio, impreditori edili, poiché incriminati del reato di riciclaggio, aggravato dall'aver agevolato un'organizzazione mafiosa, avendo ricevuto da discuttibile personaggio, legato alla malavita, pagamenti per lavori edili e interventi urbanistici con denaro di provenienza illecita, essendo lo stesso provento di false fatturazioni.
La tesi dell'accusa muoveva dall'assunto che le operazioni edili e l'essistenza stessa della società edile fossero fittizie e, di fatti, solo una copertura per permettere la "pulizia del denaro sporco", facendo circolare lo stesso su diversi conti.
Il reato contestato, infatti, punisce chiunque pone in essere una serie di comportamenti od operazioni tali da ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa del denaro, nel caso di specie, tra l'altro, aggravato per aver, con tale contegno, agevolato un'organizzazione mafiosa.
La pena astrattamente prevista per tali fatti era quella editale dell'art. 648 bis c.p. , che punisce tali condotte, in particolare, con la reclusione da 4 a 12 anni, oltre alla multa da 5.00,00 a 25.000,00 euro, pena aumentata fino alla metà per effetto dell'aggravante contestata contemplata dall'art. 416 bis.1 c.p. , che la portava la pena della reclusione da 4 a sei 6 anni nel minimo e da 12 a 18 anni nel massimo, oltre alla relativa multa, anch'essa aumentata.
Esamanita pertanto la corposa documentazione delle indagini condotte dai ROS dei Carabinieri di Padova ed analizate le numerossime documetazioni attestanti l'effettiva e reale esecuzione degli inteventi edili si decideva, sempre con gli assistiti, di procedere a giudizio dibattimentale, andando a provare la sussitenza di causa ed il valido titolo dei pagamenti incriminati.
Dopo l'udienza preliminare e lo svolgimento di un'articolato giudizio dibattimentale, durato più di un anno, con numerossime posizioni difensive, nel quale si procedeva al controesame dei testi della pubblica accusa, all'esame degli imputati ed infine all'escussione dei testi della difesa, si riusciva a dimostrare l'insussitenza sia dell'elemento oggetivo del reato contestato, sia di quello soggettivo; giungendo così ad una piena pronuncia assolutoria, nel giugno del 2023, di entrambi gli imputati, perché il fatto non sussiteva.
Si rivolge allo studio un cittadino di origine magrebina che, in stato di separazione coniugale dalla propria moglie, con affido condiviso dei figli e nell'esercizio della podestà genitoriale sugli stessi, otteneva il riconsocimento della cittadinanza italiana giusto decreto del Presidente della Repubblica.
L'assisitito chiedeva allo studio, infatti, se fosse possibile l'estensione del prorpio status civitatis, cioè della cittadinanza italiana, anche ai propri figli minori, sebbene questi coabitassero dopo la separazione con la madre.
Lo studio pertanto esaminata la fattispecie, studiata la normativa in materia ed analizzata la giurisprudenza formatasi negli anni sul caso; in linea con l'orientamento della magistratura italiana, valutava come concedibile la suddetta cittadinanza ai minori in forza di un'interetazione estensiva fornita dai giudici del concetto di convivenza, assimilato non alla materiale coabitazione, ma bensì ad un concetto di prosecuzione del rapporto parentale e genitoriale con i figli.
Si procedeva, dunque, presentando istanza di estensione della cittadinanza al comune di residenza, facendo forza su tale orietamento giurisprudenziale e si otteneva, anche dopo il deposito di memorie difensive e di numeorse sentenze di merito, il riconsocimento per i figli dell'assistito della cittadinanza juris communcatio.
In ogni caso, lo studio in difetto di riconcimento della richiesta di estensione da parte del comune avrebbe predisposto debito ricorso per il riconscimento di tale diritto.
Lo studio veniva contattato da un cliente, già noto, che, dopo essere stato difeso e prosciolto in un giudizio per bancarotta fallimentare, per essere stato costretto a rendersi amministratore testa di legno in una società di capitali da noto personaggio appartenente ad un'organizzazione mafiosa radicata in terriotorio veneto, riceveva dall'ispettorato territoriale del lavoro di Verona un'ordinanza di ingiunzione per il pagamento di contributi dovuti dalla sudetta società di capitali mai pagati.
Dopo alcuni incontri con l'assistito e l'analisi di tutta la documentaizone presente, si decideva di presentare atto di opposizione all'ordinanza di ingiunzione stessa. Opposizione articolata su diversi motivi, ma con principale argomentazione: l'essere stato, l'ingiunto, costretto e coartato dal suddetto peronaggio criminale a rendersi legale rappresentante e presta nome della suddetta società.
Dopo le produzioni documentali in giudizio ed in particolare, dopo l'aver prodotto la sentenza di proscioglimento dell'ingiunto e quelle di condanna del suddetto personaggio per reati aggravati dall'agevolazione di un'organizzazione mafiosa; il Tribunale di Verona accoglieva l'opposizione, ritenendo, dunque, sussitente lo stato di necessità per le minaccie subite dall'ingiunto nel momento in cui veniva commessa la violazione.
Infatti, il giudice riteneva che l'assisitito avesse agito sotto minaccia e quindi con un comportamento scriminato da stato di necessità contemplato dall'art. 4 della Legge N. 689 del 1981. Non poteva quindi l'assitito rispondere delle violazioni contestate e sanzionate dall'ordinanza di ingiunzione opposta, essendosi trovato in una condizione di costrizione e nella necessità di sottrare la propria persona ed i propri congiunti da un pericolo attuale e grave di danno alla persona, non altrimenti evitabile né volontariamente causato dall'agente.
Si rivolgevano allo studio i legali rappresentanti di una società di persone, confluita in altra società di capitali, che venivano incriminati per il reato di bancarotta documentale per non aver consegnato le debite scritture documentali e contabili al curatore fallimentare della società incorporante che nel frattempo era stata dichiarata fallita.
Esaminata la documentazione presente, nel ritenuto difetto di responsabilità degli assititi, si intraprendeva dopo l'udienza preliminare la strada del giudizio dibattimentale.
In dibattimento, infatti, veniva dimostrata l' effettiva consegna delle documentaizoni incriminate al legale rappresentante della società di capitali incorporante, nell'immediatezze dell'atto di trasfeirmento, e veniva altresì evidenziato al tribunale giudicante, sedente in Pesaro, come in ogni caso l'obbligo di consegna dei documenti contabili non fosse in capo ai pregressi legali rappresentanti, ma bensì a carico dei rapresentanti della società incorporante.
Dopo il controesame del curatore fallimentare, l'esame degli imputati e l'escusisone dei testi della difesa, veniva, dunque, pienamente accolta la tesi difensiva, con assoluzione degli imputati dalle contestazioni loro ascritte.
Si rivolgeva allo studio cliente già assistito da questi legali per un caso di responsabilità extra-contrattuale, conseguente all'uccisione di animale di affezione.
Il caso era particolarmente delicato poichè, tale episodio, interveniva in una già difficile situazione familiare, essendo la compagna dell'assistito, nonche madre del figlio minore con questi convivente, deceduta improvvisamente, a seguito di un sinistro stradale, pochi mesi addietro.
Un pomeriggio di fine marzo 2019, infatti, il cane del vicino di casa dell'assititito (un pitbull) forzando la rete di recinzione entrava nel giardino di casa del cliente ed aggrediva violentemente l'animale domestico di questi (un bassoto nano tedesco), ivi presente, che era stato adottato alcuni anni prima dalla compagna dell'assititito e madre del minore, e che, a causa delle lesioni riportate, moriva poco dopo l'aggressione.
Valutata pertanto la necessità di tentare una negoziazione con le controparti: il proprietario dell'animale aggressore e la compagnia assicurativa, che tutelava questo per la repsosnabilità civile, si provedeva ad avviare la procedura, che però non otteneva adesione.
Si decideva pertanto di agire in gudizio, richiedendo alla controparte il risaricmento dei danni sofferti, sia patrimoniali, che non patrimoniali.
Chiamata in causa la convenuta,cioà la proprietà del pitbull aggressore, questa chiamava a sua volta in garanzia la compagnia assicurativa.
Si svolgeva, dunque, il giudizio per mezzo di produzioni documentali e di audizioni tesitmoniali che dimostravano pienamente la responsabilità della convenuta per i fatti sorpa indicati, con condanna, della stessa, al risaricmento dei danni e con condanna altresì dell'assicurazione a tenere indenne la prorietà per tutte le conseguenze economiche derivanti dalla sentenza stessa, obbligando, di fatti, la compagnia assicurativa a rimborsare alla prorietà del cane aggressore tutte le somme dovute a ristoro dei danni.
La sentenza si inseriva in un consolidato filone giurisprudenziale soprattutto di merito, teso a qualificare il rapporto di affezione con gli animali domestici quale interesse di rango costituzionale, essendo tale relazione affettiva occasione di completamento e di sviluppo della personalità individuale, individuabile quindi come bene giuridico della persona, tutelato proprio dall'articolo 2 della Costituzione.
Il tuo caso è simile ad uno di questi od hai altre problematiche giuridiche?